Volevo condividere con voi ciò che sta nascendo quest' anno. Questo è solo qualche pagina. Spero vi piaccia. Pubblicherò qualche pagina di altri capitoli.
"Forestiera”
Scuola di sopravvivenza per principianti
Arrivai in Italia nel 2003. Un piccolo paese di appena quattromila abitanti. Un posto dove è facile sentirsi stranieri. Si conoscevano tutti. Avevo otto anni ed ero finita in un luogo sperduto, dove le persone “forestiere” – così spesso mi sentii chiamare – non si integravano facilmente. Sicuramente non eravamo neanche in tanti.
I primi mesi non mi erano andati male. Ero la novità, non parlavo italiano, e alle prime occasioni di dialogo da me usciva un “no entiendo”. Un semplice “non capisco” faceva ridere tutti. La maestra, carina, si comprò anche un dizionario per potermi parlare. Un dettaglio che ricordo con affetto.
Poi iniziarono a bullizzarmi.
Ero particolarmente pienotta, riccia. Mia madre mi faceva sempre una coda di cavallo e non mi pettinava mai con il gel – “ti cadono i capelli”, diceva – quindi mi vedevi sempre un po’ spettinata, in disordine. Con quei ciuffi ricci alle tempie che ancora oggi detesto. Avevo le sopracciglia folte, i dentoni. E sì, un’orecchia leggermente più all’infuori dell’altra. Mia madre, poi con il suo poco interessamento, mi vestiva sempre in tuta. Un orrore, le foto? da bruciare. Tutte.
Insomma, un anatroccolo, nero, In mezzo a cigni con occhi celesti. Tutte con i capelli lisci e magre io invece ero anche olivastra. Un bel mix di disagio ambulante.
Iniziarono con i classici “torna al tuo paese”, “negra”. Quello che sento, alcune volte risuonare ancora oggi, e fa un male cane, era il “Fai schifo”. Nessuno racconta mai di come, quando comincia uno, gli altri lo seguano, e l’insulto diventa di massa. Io tornavo a casa da mia madre e ricevevo solo un: “Sopporta, amore, passerà.”
(Mia madre e mio padre mi hanno sempre chiamato Amore. Anche se il loro modo di educare aveva molto di spartano. Vabbè.)
Spesso le chiedevo: “Perché ci siamo trasferite? Qui mi odiano tutti, mamma.”
Ovviamente, cosa può capire una bambina di otto/nove anni? Vedevo il dispiacere negli occhi di mia madre, ma le sue parole erano sempre le stesse:
“Passerà, ti accetteranno, vedrai.”
Oppure:
“Fregatene.”
Frasi di cui non sapevo che farmene.
Non riuscivo a spiegarmi come bambini e adulti potessero trattarmi così senza motivo. In fondo, io non avevo fatto nulla. Anzi, volentieri sarei tornata a casa mia.
Poi passarono alle mani.
Un compagno, in particolare, ormai mi aveva preso di mira. Tornai un giorno con la tasca del grembiule rotta e con i capelli più disordinati del solito. Quel giorno c’era anche mio padre in casa, che mi disse subito:
“Che hai fatto?” con un sorriso.
Non l’aveva neanche immaginato. Non l’aveva neanche avvertito mia madre di quello che vivevo.
Gli dissi che un bambino mi aveva menata, dicendomi che gli facevo schifo e che dovevo tornare al mio paese.
Mio padre allora mi disse una frase che mi avrebbe condizionata per molti, molti anni:
“Che sei, una debole? Se ti alzano le mani, tu dagli un destro. Non ti far menare.”
Stringendo un pugno e mostrandomi come si faceva in tempo reale.
-Sembrava sempre un po' arrabbiato mio padre- ma è un burlone. Scherza e gioca con tutti. Con la stessa faccia, solo quella aveva.
Mia madre invece borbottava, ma a me non interessava. Lo presi in parola. Se ciò avrebbe aiutato a farli smettere, l’avrei fatto.
Così mio padre mi insegnò qualche mossa.
Mi insegnò a dare un bel destro.
A colpire con un calcio nei testicoli.
A centrare le orecchie per disorientare.
Ricordo ancora la rissa che scoppiò pochi giorni dopo. Mia madre fu chiamata a scuola addirittura.
Ero la più alta, anche tra i maschi, e un anno più grande.
Le ho date..
Scusami Padre che sei nei cieli, ma le ho date.
Avevo sopportato a sufficienza, era ora di farmi rispettare.
Le acque in classe si calmarono.
Niente più insulti. Solo silenzio.
Benedetto silenzio.
Mi escludevano, ma almeno non mi insultavano più. Finalmente. Cominciai ad apprezzare l’invisibilità. L'emarginazione.
Feci, amicizia con una ragazza. O almeno, così credevo. Era la più secchiona della classe, e pensai ingenuamente che, se mi parlava, fosse interessata a coltivare una amicizia. Mi sorrideva, avevo una possibilità pensai. Le chiesi il numero, per verificare i compiti. In realtà volevo solo fare amicizia. La chiamai alcune volte con la scusa dei compiti, ma volevo solo sentirla.
Finché una volta rispose sua madre.
Ricordo perfettamente ciò che ha detto. Ricordo perfettamente il magone allo stomaco che mi creò. Disse:
“Senti, non chiamare più mia figlia. Lei deve studiare e non può distrarsi. Non può fare amicizia con te.”
E mi attaccò il telefono in faccia.
19 parole, solo 19 parole per distruggermi emotivamente.
Pensate che oggi quella signora mi saluta benissimo, come se nulla fosse. Ma lei fu la prima adulta a escludermi. Probabilmente neanche si ricorda ciò che mi ha detto.
Fu inevitabile per me chiedermi, anzi tormentarmi con delle semplici domande: Ma che avevo fatto? Qualcuno me lo può spiegare? Non riuscivo a darmi una risposta.
Fu allora che cominciai a capire che quella atteggiamento era ereditato. Doveva per forza partire dai genitori. Come potevano dei bambini, senza conoscermi, avere tanta rabbia? Tanta crudeltà? Dovevano averlo sentito. Visto. Respirato e assorbito in casa.
La chiusura mentale era normale, in quel posto. Anzi mantenuta con orgoglio.
E io, a otto anni, nella mia prima vera notte oscura dell’anima, capii che la violenza può trovarti anche quando non fai nulla per cercarla. Non ero più la bambina mistica, giocarellona e felice. Nonostante tutto. Non ero più scalza in mezzo al terriccio. Lei si stava distruggendo, per fare spazio a una che il cuore, lo preferiva mettere in un cassetto.
Questa versione di me imparò presto che l’alienazione ti divora senza fare rumore. E che, per sopravvivere, a volte, devi diventare un’altra versione di te stessa. Una più forte. Una che sa colpire. Una che viveva con l'armatura pesante, e oggettivamente, più grande di lei.
Io però nella notte, nella finta tranquillità di una casa dormiente, continuavo solo a chiedermi:
Perché?
Quanto sarei voluta tornare indietro, prendere un aereo e vedere quei campi di canna da zucchero. Il parco giochi datomi dalla natura. Vedere di nuovo le suore, e a mangiarmi un’arepa per merenda. Sentire la musica in strada. Parlare con mio zio che mi dava qualche Bolivar solo per farmi fare un giro dell’ isolato per non sentirmi più.
Li ho custoditi quei ricordi, come un inestimabile tesoro.
Ogni tanto riprendevo il respiro con una ragazza di due anni più grande di me. Come chi sta in apnea e poi esce dall' acqua. Ero immersa nella solitudine forzata. Ammalapena respiravo.
Lei l’ho conosciuta sul pulmino. Si divertiva a farmi domande sul mio paese. La chiameremo Onesty, avrà un ruolo importante più avanti. Lei non rideva di me, ma con me.
Onesty era alta per la sua età. Era sorridente e caritatevole. Era un cuore generoso. Una bambina solare a cui piacevano le differenze. La facevano morire dal ridere. Mi diceva una parola o una frase e voleva che la traducessi, ed io lo facevo con piacere. È stata la prima a dimostrare di amare le differenze.
La prima a mostrarmi un po’ di umanità benevola, accogliente.
Nonostante ciò, qualcosa in me si bloccò. Non parlavo più spagnolo a casa, mi rifiutavo. Rispondevo solo in italiano. Anche se erano tutti Venezuelani. Cominciai a chiedere a mia madre di lisciarmi i capelli. Ricordo che non avevamo la piastra e mi li faceva con il ferro da stiro. Quante volte mi sono cotta ? Tante. Troppe.
Stavo rifiutando le mie origini, e la mia persona. Tappe della vita, direbbero. Tutto pur di sentirmi accettata, di integrarmi tra i miei stessi aguzzini.
Strana, la mente umana, no?
Quanto ci si può rimpicciolire per chi ci vede piccoli? Quanto male puoi sopportare pur di farsi accettare?
Spesso fuori dal balcone, mi rannicchiavo e guardavo il cielo. Parlavo con nessuno. Ma almeno era qualcuno. Chiedevo un amica. Con un desiderio profondo. Non sapevo che parlassi con Dio.
Poi però finalmente, alle medie, arrivò la mia prima vera amicizia. Pensate un po’, ci vollero anni.
Lei la chiameremo Chioma, perché era riccia come me. Anzi forse pure di più. Bionda e timida con tutti ma non con me. Lei con la sua risata contagiosa mi calmava il dolore e non lo sapeva. Ingenua quanto buona. Sempre con le mani davanti al ventre per darsi sicurezza. E sempre con un fazzoletto in tasca. Usato. Viveva con il raffreddore: "BABBAMIA" diceva sempre con il naso chiuso. Rido con affetto se ci penso.
Diventammo amiche in prima media, quando le classi delle elementari si unirono.
Era ribelle visto che, anche a lei la madre le diceva di non frequentarmi. Ma non le interessava. Riusciva ad evadere ed a passare del tempo con me. Le piaceva la mia compagnia e infatti, quando stavamo insieme, ridevamo tantissimo.
Lei fu per me un’ancora di salvezza, anche se non lo sa.
Infatti siamo amiche ancora oggi.
Più di 15 anni di amicizia.
Pensate l’importanza dei rapporti interpersonali. L’importanza di avere almeno una spalla, qualcuno da abbracciare. Qualcuno che finalmente mi avrebbe fatto dire: “Sì, lei è mia amica”. Un bene di cui io, sin da bambina, ho appreso bene il valore.
Neanche l’argento, i soldi, possono sostituire un legame vero come l’amicizia.
Questo, per me, fu Amore. La prima espressione dell’ Amore che conobbi.
Ad oggi penso che le mie preghiere fossero state esaudite. Lei era la mia risposta alle mie preghiere.
Ora il bullismo a scuola era diminuito. Io ero diventata pericolosa. Senza problemi ti facevo a pezzi.
Avevo imparato a vivere in guerra, ad avere dei nemici, a studiarli. Ormai sapevo osservarli e trovare i loro punti deboli. Li percepivo li studiavo. Studiavo il linguaggio del corpo. Ero, beh sono, una macchina a raggi X.
Una stronza patentata. Anzi LA stronza patentata.
Avevo ancora qualche problema con il bulletto delle elementari, arrivati alle medie. Per inciso: era stato adottato, e il padre adottivo era morto quando lui aveva nove anni. Forse questo attenuava un po’ la sua colpa, o almeno così mi piace pensare. Solo dolore trasformato in rabbia.
Gli piaceva sfogarsi con me. Evidentemente reggevo bene, e in qualche modo gli amplificavo la rabbia. Qualcosa che lui conosceva.
Un giorno ce le siamo date di santa ragione. I cazzotti che gli diedi non me li ricordo, ma i compagni di classe sì. Ero ancora bella pienotta. Ma la rabbia che mi portavo dentro pesava più dei chili.
Lo trovarono per terra, e io sopra di lui. Quella fu l’ultima volta che mi alzò le mani o la voce.
Ero diventata la peggiore. La più temuta in classe.
Ma non fuori.
Con Chioma uscivamo ancora poco, visto che con me non la facevano uscire. Ma io a casa non volevo stare.
I miei genitori, come vi ho già detto, avevano un’educazione spartana.
Mia madre, appena alzavo la voce, mi girava la faccia con uno schiaffo e mi diceva — una frase ereditata da mia nonna —: “Mi lascerai i denti in mano.” Accompagnava sempre la frase con un gesto: con una mano aperta sotto la mandibola. Ed occhi pieni dalla voglia di sfogarsi.
Ma in realtà mi colpiva con qualsiasi cosa avesse davanti. La ciabatta, le mani, pugni erano un classico, ma arrivò anche ad usare il filo della corrente.
Non so se avete mai sentito il rumore di un filo conduttore lanciato ad alta velocità. Io sì. E ancora me lo ricordo. Credo sia difficile da scordare.
A volte pensavo che mia madre si sfogasse su di me. Ma oggi so che, se mi avesse cresciuta mia nonna, sarebbe stato peggio. Molto peggio.
L’educazione, in fondo, ce la tramandiamo. E per alcuni è ancora più difficile distaccarsene. Anche se ne hai sofferto, a volte è più semplice seguire una strada già battuta.
Questo per dire che, inventavo qualsiasi scusa pur di uscire di casa.
Ma da mia madre passai ad altri bulletti: i ragazzi più grandi, quelli delle superiori.
La guerra non finiva. Finiva solo la battaglia. Ed ogni battaglia era peggiore. Ma avevo un buon allenatore a casa.
Spesso mi rifugiavo al centro anziani. Giocavo a carte con loro. Non sembravano avere problemi con me. Io li osservavo, e loro mi spiegavano come dovevo fare per vincere. Briscola, tresette, erano diventati fuga per la mia mente.
Alla fine, fu uno dei miei primi veri piaceri. Le carte.
Ero ostinata a non voler rimanere a casa, ma per andare al centro anziani dovevo passare proprio davanti ai bulletti delle superiori.
Uno era particolarmente perfido. Non si limitava ai soliti “Sei brutta”, “Fai schifo”, “Torna al tuo paese”.
Ma voglio precisare- Anche lui, purtroppo, veniva picchiato dal padre. Era famoso per le sue sfuriate. Aveva mani grandi come due pale. Immagino quanto potesse far male. Capisco che lui era l’eco della rabbia di qualcuno. Dietro di lui vi era uno più grande.
A volte, passando davanti casa sua durante le mie fughe, sentivo le urla. E quelle urla le conoscevo bene.
Mi trovai subito un altro nemico dichiarato. O meglio, lui trovò me.
Lui aggiunse anche “ puttana” alla lunga lista di insulti ricevuti. Sinceramente era quello che mi feriva meno.
"Hai la figa nera ? " Hai i capezzoli neri? Fammi vedere"
Arrivò persino ad abbassarmi i pantaloni in pubblico.
Davanti a tutti.
Rimasi in mutande davanti tutti.
Una di quelle umiliazioni che segnano. Che ti marchiano come fanno con le mucche. Inevitabilmente. Ti guardano e sai che, vedono il marchio. Le camminavi davanti e mi indicavano, borbottando e ridendo parlavano tra di loro.
Ti resta un’eco di risata nella testa. Un rumore penetrante ed incessante, che ti rode il cervello.
Una rabbia indescrivibile. Solo chi ha vissuto una pubblica umiliazione può capire.
Quasi ti verrebbe da infilarti le mani nel cranio, come a voler fare pulizia.
Oppure aggiungere un rumore ancora più assordante, solo per coprire le risate di chi vendendo la tua vergogna il tuo dolore rideva. Rideva a crepapelle.
Li però nasce la me, che amo, ossessionata con la musica. Di ogni genere. Cuffie a tutto volume, e a macinare chilometri come droga anestetizzante. Mi dovevo far male le gambe per distrarmi da altri dolori.
Ma la domanda mi è sempre sorta spontanea:
Come fa così tanta gente a ridere di una scena del genere?
Era come essere una zebra sola, senza branco, in mezzo a un gruppo di leoni.
Non mi mangiavano il corpo — mangiavano la mia mente. Intorpidivano la mia anima.
Nei primi anni della mia vita ho capito fin dove può arrivare la cattiveria umana. O il riflesso del dolore.
Ho visto quanto può essere Bestiale le bassezze umane.
Ero diventata lo zimbello dei “grandi”. Il cestino emotivo di chi stava male, di chi aveva rabbia da scaricare e sceglievano me per farlo.
Poco tempo dopo mi bruciarono i capelli. Battaglia suggestiva. Un mordi e fuggi diabolico.
Volevo dimostrare che potevo portare i miei ricci. Che non dovevo vergognarmene. Che non ero diversa. O forse solo, che non faceva più male.
Un ragazzo — quello che anni dopo mi avrebbe chiamata “Aciamber”, abbreviazione di “c’hai un bel culo” (eh già, chi disprezza compra...) — mi vide all’oratorio, con i capelli ricci.
Disse, ridendo:
— “Che Cardu, te li posso tocca'?”
Io, stupidamente, risposi:
— “Sì.”
Quel sì mi costò caro.
— “Madonna, sono paglia.”
— “Lasciami perdere.” risposi con un tono alterato.
Cominciarono a guardarci tutti.
— “Se mi avvicino con l’accendino, vai a fuoco.”
Lo accese. Lo spense. Lo riaccese.
Giocava con l’idea di bruciarmi. Infilando il dito indice per non perdere l’ accendino nella mia folta capigliatura. Fino a quando non riuscì a spegnerlo in tempo.
Un attimo dopo sentii il calore, vidi il fuoco, e un odore inconfondibile: capelli bruciati.
Di nuovo, tutti ridevano. Tutti guardavano.
Ed io me ne andai così. Con il fumo in testa e le lacrime agli occhi. Singhiozzando. Umiliata. Ancora.
Mi chiedevo troppo spesso, come se fosse colpa mia:
“Cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?”
Uscivo per non subire mia madre.
Rientravo per non subire il mondo.
Non avevo scampo. Se non quel misero, piccolo centro anziani. Due ore al giorno. Quando non pioveva. Come l'ora d'aria per i carcerati.
Lì iniziai ad amare anche la terza età.
Nessuno sa perché io ami tanto gli anziani.
Beh, adesso si.
Così, dentro di me, si formò un velo. Una nebbia che divideva tutto il dolore dalla capacità di esprimerlo.
Un luogo dove nascondevo tutto:
il dolore, l'umiliazione, la rabbia.
Aveva però un costo: senti meno il dolore, vero, ma senti meno anche l’Amore.
Tutto ciò che mi faceva male finiva lì inevitabilmente. Un velo di nebbia che reggeva un peso insostenibile per me.
Una diga che prima o poi sarebbe dovuta, inevitabilmente, crollare.
Sei talmente avvolto dal dolore che lui stesso si trasforma e diventa rabbia. E ciò che alimenta la rabbia non è mai un fiore. Ma un pitone.
Un serpente che non vede e non sente per nessuno. E se sente, sente la vena pulsante. E farà del male inevitabilmente ad altri.
Tendiamo a replicare l’energia che conosciamo. A cui siamo abituati. Non importa se sappiamo che farà male.
Dicono che chi soffre non faccia soffrire altri. Perché sa quanto fa male.... Non ne sarei così sicura.
Ero in guerra ogni giorno della mia vita. Dentro e fuori casa. Dentro e fuori scuola. Ormai era una realtà nella mia mente.
Li affrontavo ovunque.
Dovevi stare attento perché come un cagnolino maltrattato appena mi toccavi io mordevo.
Ho sempre però creduto in Dio. In qualcosa di superiore. Nelle sere che mi lasciavo squagliare dalla bellezza delle stelle, pensavo sempre in quello che oggi io chiamo il padre. Mi stava forgiando. Tutto ha un proposito.
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