
Quello che successe con mio padre fu solo il fattore scatenante.
Quando compresi le dinamiche con lui, smisi di capire anche Amarezza. La sua fuga fu un'ulteriore frattura. Aveva i suoi motivi, che però non mi spiegò mai. E questo, col tempo, divenne un problema che ero solita risolvere: tirargli fuori le cose con le pinze.
Ma dopo aver visto mio padre e Amarezza litigare per qualsiasi cosa, dopo aver tentato di mediare mentre a loro non importava minimamente il danno che stavano causando, decisi di dare a Cesare ciò che è di Cesare. Ad ognuno le proprie responsabilità. Me compresa.
Ero stanca di chi cercava solo fratture, di chi costruiva distanze. E stanca di essere io a mettere i cerotti. Così lasciai che Amarezza finisse di rompere il vaso. E lui lo fece. Si diede alla fuga. Io, invece, rimasi a lavorare in Spagna.
Per i primi due mesi tenne nostra figlia con sé, era estate, e il mio capo mi faceva lavorare sette giorni su sette fino alle cinque del pomeriggio.
Ma questa è un'altra storia. Perché quello che ho vissuto in quel minimarket è qualcosa che, a mio parere, non si vedeva da almeno cinquant’anni.
Amarezza aveva deciso così. Io passai l'estate a lavorare, facendo anche doppi turni. Meno pensavo, meno sentivo. L’appartamento che avevo trovato a Oliva Mare, dove ci eravamo appena trasferiti, distava due o tre chilometri dal centro. Avevo una bicicletta.
Un giorno il vicino, infastidito perché la lasciavo all’ingresso, me la nascose. Vi giuro.
Era un tipo dal carattere vulcanico, rabbioso. Non ho mai avuto la conferma che fosse stato lui, ma dopo qualche mese la bici ricomparve. Dubito che me l’avessero rubata, perché in quel caso non sarebbe tornata indietro.
Così, per due mesi, camminai.
Mi feci un’Alice. Andavo spesso in paese: due, tre chilometri alla volta, ma era pianura, e con le cuffie nelle orecchie posso arrivare fino all’Antartico.
La bicicletta era fondamentale: mi serviva per portare la bambina a scuola e per andare al lavoro. Avevo incastrato tutto alla perfezione.
Ero fiera di me. Non accettavo più niente che non sentivo di meritare. Ero felice con poco. Il momento migliore era la vista dal mio appartamento al terzo piano: l’alba la vedevo sempre, e il tramonto era il respiro a polmoni aperti, il segnale che un'altra giornata si era conclusa. Mi sentivo piena di orgoglio.
Ma con la sola bicicletta era dura. E presto sarebbe arrivato l’inverno, con i suoi temporali.
Serviva un’auto. Ovviamente, avevo già i soldi messi da parte.
Trovai una Fiat 500 rossa, con appena 60.000 chilometri. La presi per due soldi e la mandai a riparare: 680 euro tra interventi e tagliando. Assicurazione a parte.
Ma finalmente ce l’avevo.
Un appartamento fisso.
Una spesa totale di 580 euro al mese, tra affitto, luce e internet.
Uno stipendio di 1.200 euro, lavorando sei giorni su sette.
Contro ogni pronostico. Anche contro quello di Amarezza, che dopo un mese dalla partenza mi disse: “Dai, scendi. Non ce la fai.”
E dopo aver combattuto con la mia mente, dopo aver pianto per la fatica e l’incredulità… riuscii a farcela.
Tutto ha un prezzo, però. E fu allora che cominciai a vedermi davvero.
Ogni mia scelta passò al setaccio della nuova me.
La scelta di quell’uomo.
La scelta del viaggio.
La scelta di non arrendermi.
Tutto prese una nuova forma.
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